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Central Park. L’idea di parco e di città

I grandi parchi urbani, oltre ai nuovi assetti viabilistici, alla costruzione di sistemi idrici e fognari, e in generale alle grandi opere di modernizzazione infrastrutturale, sono elementi dell’urbanistica ottocentesca e provvedimenti di mitigazione degli effetti di ciò che veniva definito urbanesimo. Visti sotto questa luce, evidente è l’analoga origine igienista che giustifica sventramenti nel corpo delle insalubri città storiche per migliorare la circolazione nelle arterie – le nuove strade dove ciò che circola si situa sia sopra che sotto la terra – e consentire alle città di respirare meglio tramite nuovi polmoni verdi.  Il Bois de Boulogne e il Bois de Vincennes sono le due grandi aree verdi del piano del prefetto della Senna Haussmann per la  Parigi di Napoleone III,  formulato secondo queste motivazioni e finanziato tramite i valori immobiliari generati dalla sua attuazione. Ma ancor prima della creazione della Parigi moderna, verso la metà del XIX secolo, il parco paesaggistico era diventato un elemento chiave della modernizzazione della città dell’ancien régime. Dall’Englischer Garten di Monaco di Baviera – realizzato già alla fine del secolo precedente – fino al Parco Sempione a Milano –  nelle maggiori città europee terreni di caccia e aree militari si convertono in parchi pubblici che spesso sono stilisticamente connotati dall’aggettivo “all’inglese”, evocazione di quell’insieme di caratteri naturali e progettati che caratterizza il paesaggio d’oltre Manica.  

Central Park è stato pianificato con l’intenzione di essere il distretto verde nell’espansione edilizia di Manhattan. Il piano Greensward presentato da Frederick Law Olmsted (1822-1903) e da Calvert Vaux (1824-1895) nel 1858 riprende la concezione paesaggistica con la quale il primo, agricoltore a Staten Island e giornalista, era entrato in contatto durante un viaggio in Inghilterra e che il secondo ben conosceva per essere cittadino di quel paese e architetto. A questo riguardo affermava Lewis Mumford in Brown Decades, (pubblicato in Architettura e cultura in America dalla guerra civile all’ultima frontiera, a cura di Francesco Dal Co, Venezia, Marsilio, 1977) che i grandiosi paesaggi naturali  – «le Mammouth Caves del Kentucky, il corso sinuoso del Mississippi, le alte vette delle Montagne Rocciose»  –  erano gli elementi in grado di fare presa sulla natura romantica dell’americano medio, ciò che poteva fargli apprezzare il concetto di landscape park – «un prato e poche pecore, o una roccia affiorante con un chiosco di fronte a una macchia di pini». Mumford attribuiva a Olmstead la convinzione che fosse possibile trarre godimento da un paesaggio dalle sembianze naturali senza dimenticare il ruolo di colui che lo aveva progettato. Compito del progettista non è correggere lo sviluppo della città  – nel caso di Manhattan riempire con un’area verde un certo numero di isolati nella grigia stradale sulla quale si stava sviluppando la città dal 1811 – poiché  «il parco non può venire considerato come una sorta di «ripensamento» o di semplice aggiunta correttiva in un piano utilitaristico per altri versi conchiuso». Il progetto di un parco urbano rientra quindi a pieno nella progettazione urbanistica. La sperimentazione condotta a Central Park della separazione dei flussi di traffico, veicoli da una parte e pedoni dall’altra, una volta concretizzato nelle città giardino promosse dalla Regional Planning Association of America di Mumford e Henry Wright, diventa, secondo il primo, il più importante lascito di Olmsted. 

 Ai nostri giorni, nei quartieri residenziali, tali principi essenziali sono stati ulteriormente sviluppati: i migliori urbanisti europei e americani ripropongono la medesima distinzione olmstediana tra traffico su ruota e scorrimento pedonale; in tal maniera Henry Wright ha progettato una città nel New Jersey, Radburn, basata su di un sistema interno di parchi completamente separato dal traffico. Questo progetto contemporaneo non può che contribuire a rafforzare l’ammirazione per le invenzioni di Olmsted: senza dubbio egli fu una delle menti migliori prodotte dai Brown Decades.

I piani urbanistici per i suburb – Olmsted e Vaux  sono i progettisti di Riverside, garden suburb di Chicago –   che stavano sorgendo attorno le grandi città americane riflettono l’idea olmstediana di landscape park basata sul rispetto per la topografia naturale. Strade sinuose e viali alberati ideali per le  passeggiate, aree aperte per la pratica degli sport, in quanto elementi della progettazione urbanistica, diventavano aspetti funzionali alla nuova vita urbana che contemla gli aspetti igienici e sociali: «Olmsted aveva creativamente compreso e definito tutti gli elementi interagenti nella pianificazione degli spazi verdi, e in un piano di sviluppo urbano complessivo», aggiungeva Mumford. Da questo punto di vista Central Park, al di là di un’idea di parco,  configura un principio urbanistico: la funzione del parco, che «aveva diritto ad esistere in quanto tale, senza bisogno di musei, piste per pattinaggio, teatri, spettacoli o altri armamentari della vita civile». In quanto parte integrante della città di Manhattan, Central Park rappresenta una funzione urbana in grado di «favorire piaceri semplici ed elementari, come respirare profondamente, sgranchirsi le gambe, stendersi al sole». Se questa è la sua funzione, lo scopo che ne giustifica l’esistenza dentro i meccanismi dello sviluppo immobiliare che si svolgono appena al di là del suo perimetro, allora Central Park può essere considerato un’isola di libertà, un luogo in cui le classi sociali possono mescolarsi, un parco per il popolo, che sta dove sorge una grande città (where a great city stands), per usare le parole di Walt Whitman, grande estimatore del parco.

Il libro di Marco Sioli, Central Park un’isola di libertà (Elèuthera, 2023, pp.156, €15) oltre a essere una sorta di compendio di storia degli Stati Uniti d’America dalla fine della guerra civile ai giorni nostri, in particolare di quelle Brown Decades che dalla fine della guerra civile segnano l’eclettico sviluppo architettonico e urbanistico di New York City, riporta implicitamente alla luce le affermazioni di Mumford riguardo al programma di Olmsted.  Nella storia raccontata da Sioli il landscape park si evolve nell’idea che quell’isola di wilderness, nella formazione di una metropoli, possa essere  strumento di mitigazione delle disuguaglianze sociali. Alla morte di Olmsted la New York City che noi conosciamo esisteva solo da cinque anni, dato che la fusione dei cinque distretti urbani – Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island –  era avvenuta nel 1898. Ciò che tuttavia esisteva era la coscienza di una grande città, che non era solo il luogo dei moli allungati, delle banchine, delle manifatture, dei depositi di prodotti, per usare le parole di Whitman, ma il posto delle grandi folle di uomini e donne dove cessa la condizione di schiavo e quella di padrone.  La wilderness nella città, preesistente la privatizzazione del suolo e l’urbanizzazione dell’isola di Manhattan, custode della sua natura geologica e antropologica  (la Mannahatta di quella tribù del popolo Lenape da cui l’isola prende il nome) è uno spazio democratico in grado di preservare il parco dalle numerose minacce alla sua integrità. Molte delle quali, ricorda Sioli, sono opera del più famoso tra i commissari cittadini ai parchi, ovvero quel Robert Moses che Jane Jacobs definirà la cosa più vicina a un dittatore che abbia (finora) afflitto New York e il New Jersey.

L’opera di Olmsted si propaga negli altri distretti urbani di New York City e in generale nelle grandi città americane. Così la quantità e la qualità degli spazi verdi pubblici, vera e propria infrastruttura urbana, diventano uno degli indicatori del concetto stesso di grande città in opposizione ai sobborghi dei quali è circondata e dove il verde è solo privato. Sioli insiste sul fatto che il parco, come elemento che qualifica l’esperienza urbana, fa parte della «sfera democratica» che la contraddistingue. La visione di Olmsted e Whitman «univa la sfera privata con quella pubblica: immergersi nella natura attraversando Central Park era come entrare in un museo o leggere un libro di poesia». In quanto testimoni della guerra civile il parco del primo e la poesia del secondo sono stati strumenti per la «resurrezione della democrazia ferita dalla guerra fratricida. (..) La gente di Manhattan festeggiava questa democrazia sciamando verso Central Park», i lavoratori del Lower East Side e i borghesi dalle cui abitazioni era possibile vedere la vegetazione del parco. Il «parco per il popolo» cincepito daOlmsted aveva anche la funzione di educarlo al rispetto e alla cura del bene comune. I poliziotti deputati al suo controllo più che forze dell’ordine erano Keepers, custodi di un suo uso appropriato in cui l’appropriatezza coincide con il rispetto delle prerogative del parco, spazio in cui si esprime la natura democratica dell’esperienza urbana (pp.47, 49, 59). A Whitman Central Park aveva concesso la sensazione di libertà che si percepisce in «un limite indefinito» e per Olmsted la varietà dei suoi paesaggi  doveva garantire la possibilità di sperimentare «la migliore immaginazione di un pittore». Il libro di Sioli ripercorre la gamma di possibilità che il parco ha offerto a coloro che volevano liberamente sperimentarle: celebrazioni, festeggiamenti, manifestazioni, concerti e happening. Tra le forze contrastanti che l’hanno voluto da una parte tempio della wilderness e, dall’altra, parco di divertimenti, per Sioli Central Park non smette di «essere lo spazio di libertà estesa» progettato da Olmsted e Vaux nel 1858 e celebrato nel 2022, a duecento anni dalla nascita del primo, con un sito internet a lui dedicato. Visto con occhi contemporanei Central Park è un intervento di forestazione urbana, un provvedimento di mitigazione dei cambiamenti climatici. Allo stesso modo, oltre un secolo e mezzo fa, lo è stato di contenimento si tutto ciò che in termini ambientali e sociali  la nascita di una metropoli portava con sé: « problemi sociali, etnici, razziali e di genere » (p.155). La sua storia, nel racconto di Sioli, ha il merito di riportare il lettore a riflettere sul significato del parco urbano nell’esperienza odierna della città e su tutto ciò che essa implica riguardo al rapporto tra spazio pubblico e democrazia. In un periodo in cui è di moda parlare (spesso a sproposito) di consumo di suolo e di cementificazione, con quale idea di parco e di città pensiamo alle trasformazioni che inevitabilmente avvengono (e avverranno) nello spazio generico delle aree urbane e in quello specifico del singolo quartiere o parte di città?

Di Michela Barzi

Laureata in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Si è occupata di pianificazione territoriale ed urbanistica per vari enti locali. Ha pubblicato numerosi contributi sui temi della città, del territorio e dell'ambiente costruito in generale e collaborato con istituti di ricerca e università. Ha curato un'antologia di scritti di Jane Jacobs di prossima pubblicazione presso Elèuthera. E' direttrice e autrice di Millennio Urbano e scrive per altre riviste.