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Contro la città-macchina

Sosteneva Lewis Mumford nel 1961 che «molto di ciò che può apparire luminosamente contemporaneo non fa che restaurare la forma archetipica di Coketown aggiungendovi un rivestimento in cromo» Il riferimento è alle automobili, per favorire le quali gli «ingegneri dei trasporti e del traffico, continuano a portare le loro strade di scorrimento a più corsie nel cuore stesso delle città e a consumare spazio in parcheggi e autorimesse.». La cupa città industriale immaginata da Dickens a partire dalle reali company towns britanniche, era per Mumford il prototipo di quella contemporanea. Un decennio dopo queste affermazioni, mentre il complesso di Pruitt-Igoe di St. Louis nel Missouri – il simbolo più perverso del rinnovamento urbano negli Stati Uniti – cominciava ad essere demolito, Giancarlo De Carlo affronta in una conferenza l’argomento del processo di semplificazione della città industriale che ha avuto come risultato la città-macchina del Movimento Moderno.

«La città come fosse una macchina, doveva essere un insieme di parti distinte, correlate da un rapporto di necessità funzionale: ogni parte non doveva avere niente di più né niente di meno di quanto è necessario al suo funzionamento; allo stesso modo in cui un ingranaggio non deve avere né un dente di più né uno di meno di quanto serve e far girare l’ingranaggio che gli sta vicino. Anche in questo caso lo strumento per ottenere la semplificazione era la specializzazione. Così le attività urbane sono state prima isolate, poi classificate e gerarchizzate, infine localizzate nello spazio fisico in modo che risultassero ben distinte, prive di sovrapposizioni». 

E’ qui che interviene lo zoning con il suo contributo chiarificatore delle differenti funzioni nella città. Si tratta di uno strumento inventato prima del Movimento Moderno per mettere ordine nello sviluppo della città industriale, che «aveva finito per diventare una sorta di immagine ideologica: la proiezione sulla scena urbana dell’ideologia della produzione». Ciò di cui «l’urbanistica dello zoning e l’ideologia della città-macchina» avevano bisogno era un dogma sul quale basarsi ed esso veniva individuato nella formula secondo la quale le funzioni generano automaticamente le forme degli edifici che le contengono. Sorprendente è a questo riguardo l’analogia delle parole di De Carlo con quelle di Jacobs di seguito riportate.

«Questa tendenza a passare dall’approccio umanistico a quello meccanico riflette una difficoltà che riguarda in genere l’attuale progettazione architettonica: il declino del rispetto della funzione e la conseguente mancanza d’interesse nei suoi confronti. Forse non è un caso che anche la progettazione urbanistica condivida lo stesso difetto, dato che i due campi disciplinari dell’architettura e dell’urbanistica attingono allo stesso bacino di assunzioni inconsce e di consapevoli idee, e a volte dagli stessi professionisti. Senza che nessuno se ne accorga, la parola “funzione”, e l’idea di funzione, hanno assunto un significato divergente da quello che aveva negli anni formativi dell’architettura moderna. La funzione, a cui doveva seguire la forma, inizialmente significava gli usi per i quali un determinato edificio era necessario. I metodi strutturali e i materiali da costruzione erano intesi a favorire e ad esplicitare questi usi, in un certo senso a renderli liberi, invece di distorcerli e nasconderli ».

Per De Carlo la chiarezza diventava quindi un obiettivo in sé dell’urbanistica contemporanea, che tuttavia sollevava la seguente domanda: perché «un’organizzazione urbana, che è un sistema di relazioni tra individui e tra classi sociali, infinitamente intricato e complesso» avrebbe bisogno della chiarezza? La città contemporanea basata sulla tabula rasa è la risposta a questo bisogno di chiarezza perché elimina il contesto fisico e sociale. «La perdita della cognizione del contesto ha prima alterato e poi svuotato l’insieme di proponimenti che il Movimento Moderno aveva inizialmente perseguito», conclude De Carlo. Analogamente Jacobs affermava.

«L’architettura sta ancora vivendo di rendita da questa eredità basata sull’analisi delle funzioni, ma si tratta di un’eredità incompleta e, a parte che per la progettazione degli ospedali, ben poco è stato aggiunto ad essa nel corso di una generazione. Invece, nel frattempo, la “funzione” non significa più l’uso che si fa di un edificio ma la sua struttura e i suoi materiali. Non è più possibile ora scrivere che la forma segue la funzione perché ci si confinerebbe nella discussione sulla struttura e sui materiali: esattamente ciò che è già successo.(…) Quando l’architettura si concentra in maniera ancor più ristretta sui suoi strumenti, e si discosta ulteriormente dall’interesse per il mondo che li usa, diventa narcisistica e lo dimostra. Come ogni cosa che si allontana dalla verità, ha bisogno di cominciare a dire cose eccezionali a proposito di sé stessa, perché non ha nient’altro da dire».

La natura intrinseca della città-macchina, il suo essere pensata con la stessa organizzazione che presiede la produzione industriale, escludeva per De Carlo, «la partecipazione diretta dei protagonisti». Era il ritiro nella narcisistica contemplazione della loro opera che impediva ai progettisti di comprendere il funzionamento della città nella vita reale, come già aveva sostenuto Jacobs. Una volta eliminati gli abitanti, ai progettisti non restava che «abbandonarsi all’eccitazione della ricerca estetica o alla tranquillità della pratica professionale..

Finiva per De Carlo quell’idea di città che nella Parigi di Haussmann aveva preso forma anche grazie ai marciapiedi «prodigiosamente ampi, corredati da panchine e lussureggianti di vegetazione (…) isole pedonali (…) scorci panoramici a perdita d’occhio (…) e monumenti alle estremità dei boulevards». Si trattava di quei «punti focali» che Jacobs pensava fossero indispensabili per conferire piacevolezza e vitalità alle strade, «una fontana, una piazza, un edificio», in grado di sorprendere l’osservatore a ogni nuova osservazione della scena. Questi elementi erano in grado di creare una sorta di «effetto magico» che si propagava al suo intorno e che generava una prospettiva in cui il pedone veniva messo al centro. Al contrario, la segregazione funzionale dell’urbanistica ortodossa produceva all’interno della città aree esclusivamente dedicate al traffico pedonale, lasciando alle auto tutto il resto. Con la sparizione dei pedoni dalle strade, confinati nelle aree pedonali, sparivano anche le attività commerciali, come dimostrava l’Unité d’Habitation, ovvero il modulo edilizio de La Ville Radieuse che Le Corbuser aveva costruito a Marsiglia, dove le strade erano state inglobate all’interno dell’edificio. E questa interiorizzazione non risparmiava nessuna delle funzioni urbane, relegate persino sul tetto del modello edilizio.

William H. Whyte Jr in uno dei saggi di cui si compone The Exploding Metropolis – l’antologia di scritti pubblicata nel 1958 che contiene anche un celebre contributo di Jane Jacobs – sosteneva a proposito del ruolo istituzionale dell’urbanistica americana che finché gli assunti che in esso sono stati lasciati così come sono non verranno riesaminati, la città è destinata a tramutarsi in un gigantesco disastro. I super complessi residenziali simili a caserme, realizzati dopo le demolizioni degli slum nelle aree interne dei grandi agglomerati urbani, non erano stati pensati per gli amanti della vita urbana che aborrivano la monotonia del suburbio. Semplicemente essi erano destinati a coloro che non si potevano permettere un’abitazione unifamiliare suburbana. Si trattava di un modello economico e sociale, del quale facevano parte la segregazioni razziale e di classe, che aveva assunto di volta in volta le forme de La Ville Radieuse di Le Corbusier, per il risanamento delle aree centrali, o della Città Giardino/New Town, nel caso del decentramento suburbano. Se consideriamo queste parole alla luce della vicenda di Pruitt-Igoe, il cui progetto edilizio richiama l’Unité d’Habitation e quello urbanistico La Ville Radieuse, possiamo tranquillamente concedere a chi le ha scritte di averci visto giusto.

NOTE

Il complesso di edilizia residenziale pubblica Pruitt-Igoe, sorto al posto di ciò che era stato considerato uno slum, era composto da trentatré identici edifici da undici piani, che sorgevano davanti al sole, circondati dell’aria e nel mezzo di aree verdi, che avrebbero dovuto ospitare circa diecimila persone. Abitato a partire dal 1954 in prevalenza da afroamericani, fu definito nel 1970 dal sociologo Lee Rainwater uno slum costruito con fondi federali. Segnato dal crimine e dal degrado divenne il simbolo del fallimento dell’urban renewal e dei principi architettonici del Movimento Moderno.

La citazione di Lewis Mumford è tratta da  The City in History, La città nella storia, trad. it. Ettore Capriolo, Milano, Bompiani, 1967-1985, vol.III.

Le citazioni di Giancarlo De Carlo sono tratte da:  Giancarlo De Carlo, L’architettura della partecipazione, Macerata, Quodlibet, 2013.

Le citazioni di Jane Jacobs sono tratte da: Jane Jacobs, Città e libertà, Milano, Elèuthera, 2020.

La frase in corsivo di William H. Whyte Jr è stata da me tradotta.

L’immagine di Pruitt-Igoe è tratta da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pruitt-igoeUSGS02.jpg

Di Michela Barzi

Laureata in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Si è occupata di pianificazione territoriale ed urbanistica per vari enti locali. Ha pubblicato numerosi contributi sui temi della città, del territorio e dell'ambiente costruito in generale e collaborato con istituti di ricerca e università. Ha curato un'antologia di scritti di Jane Jacobs di prossima pubblicazione presso Elèuthera. E' direttrice e autrice di Millennio Urbano e scrive per altre riviste.