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Case popolari e riforma urbanistica: due questioni che s’intrecciano

Sono passati 45 anni da quando, giusto in questi giorni, fu proclamato uno sciopero generale nazionale che poneva all’attenzione dell’opinione pubblica un tema mai affrontato in modo specifico dalle rivendicazioni sindacali: il diritto alla casa. Due anni dopo sarà promulgata la legge 865 Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica con l’obiettivo di unificare tutti i fondi stanziati per la realizzazione di insediamenti di edilizia economica e popolare e  riorganizzare l’intervento pubblico in materia di edilizia residenziale.

Quartieri, non solo case

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Foto: M. Barzi

La legge intendeva soprattutto orientare il settore edilizio a regia pubblica in interventi coordinati che superassero il caos seguito al periodo d’incontrollata espansione, culminato con la frana di Agrigento del 1966. Con la 865 vengono realizzati quartieri veri e propri, dotati di servizi e verde pubblico; pezzi di città e non solo case popolari.  La sua promulgazione fa parte della stagione segnata dai tentativi di riforma della legislazione urbanistica, iniziata con nel 1962 con la legge 167 Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare, e conclusasi con la legge 457 del 1978, che intendeva rilanciare la programmazione dell’intervento pubblico in edilizia favorendo il recupero del patrimonio residenziale esistente.

Il diritto alla casa per riformare l’urbanistica

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Foto: M. Barzi

L’innovazione introdotta  dalla 167/1962 sta nella possibilità data alle amministrazioni comunali di realizzare insediamenti di case popolari nell’ambito delle previsioni del Piano Regolatore Generale, espropriando le aree e pagandole un prezzo non ancora condizionato dalle previsioni edificatorie del piano: intere parti di città potevano così essere pianificate e realizzate senza i condizionamenti della rendita fondiaria. La legge interpretava in particolar modo l’esigenza di dare un quadro normativo preciso alle esperienze di realizzazione di insediamenti di edilizia economico-popolare avviate dal cosiddetto piano Fanfani (legge 43/1949 Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori) e dalla successiva istituzione del programma INA-Casa.

La 167 servì anche per sperimentare, almeno nell’ambito dell’espansione urbana, la riforma della legislazione urbanistica, ferma al 1942. Un provvedimento legislativo quindi non solo utile per pianificare meglio i tumultuosi sviluppi della ricostruzione post bellica e della nuova fase economica espansiva, che attraversava ampie zone del paese soprattutto al Nord, ma anche lo strumento per superare il limite invalicabile di ogni buona pianificazione urbanistica, e cioè la questione della proprietà dei suoli e i conseguenti interessi messi in gioco sulla loro destinazione. Il naufragato disegno di legge di riforma urbanistica, formulato dal ministro dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo pochi mesi dopo la promulgazione della legge 167/1962, adottava infatti lo stesso principio dell’acquisizione dei suoli tramite esproprio come soluzione per eliminare le sperequazioni insite nel processo di pianificazione urbanistica.

Il tramonto di una stagione

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Foto; M. Barzi

Non sembra quindi un caso che il tema dell’edilizia popolare, del crescente bisogno di alloggi ad un canone che non superi il 30% del reddito delle famiglie – a fronte di un enorme numero di domande inevase e delle tensioni sociali che ne derivano e che vengono descritte ormai quotidianamente dalle cronache giornalistiche – si profili proprio nel momento in cui si stanno delineando le conseguenze del progetto di riforma della legge urbanistica nazionale, messo a punto dal Ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Nel DDL Lupi l’edilizia residenziale pubblica – concetto riformulato con l’aggiunta dell’aggettivo sociale – diventa un servizio che può essere erogato dall’intervento pubblico così come da quello privato attraverso l’offerta di alloggi in locazione o il sostegno all’accesso alla proprietà della casa

Il clamore giornalistico suscitato dalle rivolte degli abitanti dei quartieri realizzati attraverso interventi pianificati dal pubblico – e dominati dal degrado edilizio e sociale innescato da decenni di mancati interventi e di dismissione del patrimonio pubblico – potrebbe utilmente aprire la strada all’idea che il cosiddetto social housing,realizzato dai privati anche con agevolazioni pubbliche (riduzione o esonero dal contributo di costruzione), sia la soluzione che risolve i mali delle periferie. I problemi dei quartieri popolari sono noti da tempo e certo la perdurante crisi economica non ha fatto altro che aggravarli. Che sia questa l’occasione giusta per risolverli sancendo la fine dell’intervento pubblico sul diritto alla casa e consegnando in generale le trasformazioni urbane all’interesse privato?

 

Di Michela Barzi

Laureata in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Si è occupata di pianificazione territoriale ed urbanistica per vari enti locali. Ha pubblicato numerosi contributi sui temi della città, del territorio e dell'ambiente costruito in generale e collaborato con istituti di ricerca e università. Ha curato un'antologia di scritti di Jane Jacobs di prossima pubblicazione presso Elèuthera. E' direttrice e autrice di Millennio Urbano e scrive per altre riviste.

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